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Shoyu (Salsa di Soia)

Lo Shoyu (salsa di soia) è senza dubbio l'ingrediente principe della cucina giapponese, il pilastro su cui si fonda il sapore del Washoku. Spesso, quando pensiamo alla salsa di soia, immaginiamo un unico liquido scuro e salato, ma la realtà è molto più variegata: ne esistono di diversi tipi, ognuno con una propria identità legata agli ingredienti, alla regione di provenienza e all'utilizzo in cucina.

Un mondo di varietà: quale scegliere?

Quando in una ricetta giapponese generica leggete "salsa di soia" senza ulteriori specificazioni, si sta parlando quasi sicuramente della Koikuchi. Questa è la salsa standard, quella con il classico tappo rosso che si trova comunemente in commercio (esiste anche col tappo verde, che indica una versione a ridotto contenuto di sale). La Koikuchi è tipica della regione del Kanto (l'area di Tokyo) e della cucina Edo Ryori: ha un colore scuro, un aroma equilibrato ed è estremamente versatile, perfetta per marinature come il Ninniku Shoyuzuke o per condire piatti casalinghi come gli Udon burro e shoyu.

Esiste però una variante che spesso trae in inganno: la Usukuchi. Diffusa principalmente nella regione del Kansai (zona di Kyoto) e nella raffinata cucina Kaiseki, viene spesso definita "salsa di soia chiara". Il termine "chiara", tuttavia, si riferisce esclusivamente al colore, non al sapore: la Usukuchi è infatti molto più salata della classica Koikuchi. Il suo utilizzo è specifico per quei piatti dove è importante mantenere i colori degli ingredienti brillanti e inalterati, come accade nel delicato Chawanmushi.

Infine, c'è una terza tipologia molto importante, specialmente per chi soffre di intolleranze: la Tamari. A differenza delle altre due, che nascono dalla fermentazione di soia e grano, la Tamari è prodotta tradizionalmente con il 100% di soia, risultando quindi priva di glutine. Il suo sapore è molto più profondo, denso e ricco di umami, pur essendo meno salata della Usukuchi. Queste caratteristiche la rendono la scelta prediletta per accompagnare il sashimi.

La magia della fermentazione: il metodo Honjozo

La complessità aromatica dello Shoyu non è casuale, ma è il frutto di un processo produttivo lungo e affascinante chiamato Honjozo. Tutto inizia con la soia e il grano, che vengono bolliti e tritati per poi essere cosparsi con l'Aspergillus Oryzae, una muffa nobile fondamentale per la cucina nipponica.

Dopo tre giorni di riposo nasce il Koji, una base ricca di enzimi che viene successivamente unita ad acqua e sale creando un composto denso chiamato Moromi. È qui che avviene la magia: il Moromi viene lasciato fermentare pazientemente per mesi. Se per le salse industriali questo periodo dura circa 6-8 mesi, per le produzioni artigianali si può attendere anche diversi anni. Solo alla fine di questo lungo riposo il composto viene strizzato, filtrato e pastorizzato, diventando il liquido scuro e profumato che portiamo sulle nostre tavole.

Se faticate a trovare le varianti più specifiche come la Usukuchi o una buona Tamari nei supermercati tradizionali, il consiglio è di esplorare i negozi di alimentari asiatici specializzati o gli store online, dove la scelta è decisamente più ampia e fedele alla tradizione giapponese.

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